Editoriale di Carmelo Mezzasalma
Firenze per una ricerca
dell’umanesimo cristiano
A Firenze, nel novembre 2015, si terrà il quinto Convegno Ecclesiale Nazionale che avrà come tema In Gesù Cristo il nuovo umanesimo. Lo scopo è quello di avviare una riflessione sull’umanesimo cristiano in un contesto culturale e spirituale sfidato anche dal postumanesimo di tipo scientifico-tecnologico. L’intento resta, però, propositivo, come lascia capire il suggestivo Invito al Convegno (11 ottobre 2013).
Firenze, la memoria dell’uomo
Il 18 e 19 ottobre 1986, Giovanni Paolo II, giungendo a Firenze, quell’anno capitale europea della cultura, si incontrava tra l’altro con i rappresentanti del mondo culturale fiorentino e rivolgendosi a loro ebbe a dire. «Ecco un primo compito della cultura: quello di mostrare incessantemente la memoria dell’uomo in funzione dei compiti sempre nuovi che lo attendono. Poco fa è stato autorevolmente ricordato, sotto le sue varie valenze, l’umanesimo fiorentino, da cui trasse identità l’Europa moderna. Esso è stato ed è un messaggio per tutti, non solo per gli specialisti di ricerca storico-letteraria. Il ritorno ai Greci e ai Romani non fu una fuga dal presente al passato, ma, dentro la continuità della tradizione e professione cristiana, il recupero di una ricchezza autenticamente umana per un alto avvaloramento nell’orizzonte della fede». Quel “poco fa”, cui si riferiva il papa della Fides et ratio, era il saluto di accoglienza che l’indimenticabile Mario Luzi gli aveva rivolto a nome della cultura fiorentina nella cornice incomparabile del Salone del Cinquecento in Palazzo Vecchio.
Il grande poeta, autore di Frasi e incisi di un canto salutare (1986), in effetti, aveva richiamato certo l’umanesimo fiorentino, ma dopo aver ricordato i pericoli che incombevano, non solo in quegli anni, sulla condizione dell’uomo e, in particolare, ricordando l’enciclica Laborem exercens proprio di Giovanni Paolo II: «su questa insidia dello snaturamento e della disapprovazione che incombe sul lavoro dell’uomo e riguarda tutte le sue forme, […] anche una cultura di così alta e forte impronta com’è quella fiorentina, credo che la città Le apra più sinceramente il cuore e venga a Lei con più trepidazione riconoscendo nella parola e nella prassi del Suo magistero questa cura costante e primaria».
Quale straordinario incontro, si potrebbe dire, è stato quello di Giovanni Paolo II e di Mario Luzi in quel fatidico passaggio dagli anni Ottanta-Novanta del passato Novecento! E per di più a Firenze, allora come oggi, una città “periferica” non solo rispetto al suo glorioso passato, ma anche in quello scenario tumultuoso della globalizzazione e del pluralismo verso cui si avviava la storia contemporanea, peraltro incline alla omologazione e alla perdita di identità della stessa nozione di uomo. Un incontro, quello di Giovanni Paolo II e di Mario Luzi, davvero singolarissimo e carico di una sua pregnante profezia dal momento che, a trent’anni di distanza, la Conferenza Episcopale Italiana ha scelto proprio Firenze per il suo quinto Convegno Ecclesiale, dopo Roma (1976), Loreto (1985), Palermo (1995), Verona (2006). Due figure che, per scelte e personalità, non potrebbero che essere distanti, mentre risultano invece più che mai vicine per quell’afflato che le accomuna nel segno dell’uomo e della venerazione e trepidazione per le sorti della cultura.
Due testimoni in dialogo oltre il tempo
A Firenze si parlano ufficialmente, ma con una schiettezza pari soltanto alla loro straordinaria tensione verso la verità. Entrambi sono poeti. Non del tempo libero, ma poeti veri che rendono testimonianza anche alla verità della poesia in un tempo che non sente nessuna necessità della poe-sia della vita e dell’umano, dunque dell’anima. Così, il santo pontefice, venuto dalla lontana Polonia, esprime ammirazione per Firenze, città dell’umanesimo, ma ne indica anche quella sua vocazione a essere “ponte” tra il passato e il futuro: «L’umanesimo fiorentino fu perciò un evento profetico, aperto al futuro. Vi si coniugavano la santità di Antonino, la spiritualità dell’Angelico, la veemenza del Savonarola, la pluricultura di Leonardo e di Michelangelo». E l’altro, il fiorentino Luzi, traghettatore di quel secolo terribile che è stato il Novecento, che, pur evidenziando al papa l’orizzonte moderno, fatto di incommensurabili pericoli e di grandi promesse, finisce per dire anche lui quel volto della speranza che è racchiuso nello scrigno di Firenze: «Ma ecco dove non può giungere l’umanesimo può giungere l’amore nella sua specie più alta e gratuita di carità, che forse dell’umanesimo è la cima svettante. Firenze questo lo ha sempre saputo nei recessi più profondi del suo intelletto e del suo cuore che sembrano così fieri e secchi. La sua storia e la sua cultura sono tutte costellate di astri della pietà».
Entrambi, quindi, stanno pensando ai testimoni, conosciuti e sconosciuti, della santità fiorentina. Da una parte, nel passato, Dante, i domenicani sant’Antonino, Beato Angelico, Savonarola, gettati in quel crogiuolo di creatività straordinaria che fu l’umanesimo di Leonardo e di Michelangelo. Dall’altra, nel presente ancora vitale, don Giulio Facibeni, Giorgio La Pira, Ernesto Balducci, don Lorenzo Milani, anch’essi attivi di carità e di cultura in quella stagione del Novecento letterario così carica di un umanesimo dolente e sofferto fin quasi allo spasimo (Montale, Prezzolini, Bilenchi, Gatto, Pratolini, e lo stesso Luzi). Elenchi soltanto provvisori e incompleti, è vero. Ma ciò che conta è quel fuoco segreto che arde nella loro traversata umana e spirituale per accendere quelle luci che, in un modo o nell’altro, nella santità o nella cultura, indicavano la meta da raggiungere e soprattutto la via da imboccare. Testimoni, appunto, non biblioteche o musei, pur benemeriti, che aspettano di essere svegliati da qualche limpida e nuova voce umana.
Così, quanti verranno a Firenze da ogni parte d’Italia per il Convegno Ecclesiale non potranno dimenticare che si troveranno a contatto con il suo “miracolo” – la disposizione alla poesia, alla pittura, all’architettura, a una grazia e un’eleganza innate, in una parola a un insuperabile amore per la bellezza –, ma anche a tanti testimoni della carità e della cultura che non hanno spento o dimenticato nella loro coscienza la luce accesa in loro dal Creatore a favore del fenomeno umano, per dirlo con Teilhard de Chardin. Non potranno dimenticare – o almeno lo speriamo – quelle espressioni di Giovanni Paolo II che rendono ragione del grande sogno del concilio Vaticano II: «La Chiesa guarda con simpatia alle molteplici espressioni culturali. È amica degli uomini di cultura. Favorisce il progresso della cultura. Il tutto nell’intento di servire la grande causa della persona umana». E sostando dinanzi al miracolo della Cattedrale di Santa Maria del Fiore, al miracolo della cupola del Brunelleschi, potranno ripetere gli splendidi versi di Mario Luzi, dedicati in Opus florentinum a questo miracolo umano e spirituale al contempo che fu la lunga e sofferta costruzione proprio della Cattedrale: «Intanto la fabbrica va avanti / e cresce la santità dei santi / nella sventura dei tempi / che funestano la città. / Comprende Maria / e intercede. Oh Firenze / la sua alta protezione / risponda alla tua ascesi / e alla sua attiva dedizione» (alcuni dei discorsi di Giovanni Paolo II a Firenze e il saluto di Mario Luzi sono stati recentemente raccolti in un piccolo volume delle nostre edizioni dal titolo Il futuro ha un cuore antico. Il contributo di Firenze per un nuovo umanesimo, Edizioni Feeria-Comunità di San Leolino 2014).
Mito o realtà?
E' noto, in ogni caso, come Firenze sia stata un mito dopo quel glorioso e irripetibile Quattrocento che l’ha vista balzare in avanti sullo scenario drammatico dell’Europa moderna. Non solo per la fioritura dell’arte, ma anche per quel sogno proprio dell’umanesimo che avrebbe insegnato alla cultura l’ardua ascesa della creatività e della libertà. Ma quel mito di Firenze, che attraversa la cultura del Vecchio Continente, era ed è soltanto un mito? Eppure, Luzi, rivolgendosi a Giovanni Paolo II, era ben consapevole che non si trattava di un mito, ma di una realtà e condivideva quel penetrante giudizio di Eugenio Garin che intravedeva, nella Firenze dell’umanesimo, un eccezionale terreno di “esperimenti culturali”. In un discorso, che porta il titolo significativo La missione di Firenze, Garin affermava: «A Firenze si veniva – e si continua, del resto, a venire – per andare a scuola: per frequentare quelle sue grandissime scuole che sono gli Uffizi e la Laurenziana, gli archivi e i musei in genere, dove insegnano secoli di ricerca d’arte e di scienza, di politica e di vita civile» (1992).
Così, il grande filosofo e studioso dell’Umanesimo fiorentino non faceva quasi nessuna fatica per dimostrare come, anche lungo tutto il Novecento, la città avesse assolto egregiamente il suo compito facendo “scuola” e accogliendo il pragmatismo di James e di Pierce, ma anche le ricerche di Freud e del Circolo di Vienna, e poi di Husserl e di Enrico Fermi. Insisteva ancora Garin in quel lontano 1992: «A parte la sgradevole retorica di oggi, fu, questa di Firenze, una vocazione antica: mediare – farsi ponte tra passato e avvenire; farsi tramite tra popoli e dottrine; mostrare come la consapevolezza storica esalti, non soffochi, la capacità creativa; come l’incontro e la pace scaturiscano dalla lotta; come l’uguaglianza fiorisca sulle differenze; come la giustizia e la libertà si raggiungano solo combattendo e soffrendo; come l’uomo sia il vero fine di ogni azione dell’uomo». È tutt’altro che retorica di circostanza questa “missione” di Firenze, così energicamente sottolineata da Garin, dal momento che diversi segnali la confermano. Né si deve dimenticare, tra l’altro, che proprio Garin, prima di un certa “svolta” del suo pensiero, aveva tenuto al Lyceum di Firenze una conferenza su san Carlo Borromeo, ahimè oggi perduta, negli anni tragici della Seconda guerra mondiale e nel corso di un ciclo sui santi cui avrebbe dovuto partecipare anche il filosofo Giovanni Gentile se la tragica morte non ne avesse fermato la vita e la parola.
Diversi segnali, si diceva, parlano proprio della missione di Firenze. Non solo l’immagine di Firenze, assai nota, di Giorgio La Pira che la definiva «la città sul monte» nella sua singolare prospettiva di una teologia della storia: «Firenze – affermava La Pira – rappresenta qualcosa di unico; ha nel mondo il grande compito di integrare con i suoi valori contemplativi l’attuale grande civiltà meccanica e dinamica». E Mario Luzi dedicherà una bella poesia a questa immagine di La Pira in cui dice nella conclusione: «Siamo qui per questo. Stringiamoci la mano, / sugli spalti di pace, nel segno di San Miniato». E, alla domanda su cosa aveva rappresentato per lui la figura di La Pira, Luzi rispondeva lapidario: «La Pira esauriva tutto nel suo provvidenzialismo: “Dio c’è, la Provvidenza esiste, noi abbiamo la fortuna di essere qui”. Il suo discorso era semplicista, ma in real-tà profondo, nella sua radicata convinzione di ottimismo cristiano. La Pira non richiamava per nulla la tradizione del pessimismo cristiano, della tabe dell’origine. L’uomo dai suoi discorsi veniva fuori come una creatura magari debole ma innocente».
Su un altro versante, quello della psicologia del profondo, c’è da registrare un altro significativo segnale. Nell’ottobre del 1981, infatti, il noto enfant terrible della psicologia del profondo che si richiama a C.G. Jung, l’americano James Hillman, giungeva a Firenze per compiere un “rito” di grande valore simbolico: in Palazzo Vecchio, sotto gli auspici del Comune, tenne una conferenza dal titolo Firenze e l’anima mundi. Nell’intento di Hillman, in effetti, quella conferenza doveva essere un ritorno alle radici della concezione occidentale dell’uomo e quindi dell’umanesimo italiano (non solo Plotino, ma Ficino e Vico) in rapporto a una “re-visione”, radicale e culturale, della pratica psicanalitica.
Di fatto, nel portare avanti il problema dell’anima, in una psicologia rimasta ancorata solo alla “terapia”, non era sfuggito allo sguardo penetrante di Hillman che non era più possibile dimenticare che tutti noi abbiamo una realtà psichica forgiata dalla rielaborazione del nostro retroterra culturale. Dunque, della “tradizione” che continua ad alimentare non solo le “teorie” che formuliamo, ma la concezione stessa della realtà: «Insisto – diceva Hillman – che, di fronte alle fantasie di catastrofe, la tradizione alla quale dobbiamo rivolgerci non si trova nell’Himalaya, sul monte Athos o nei remoti pianeti dello spazio, neppure nel terrore nichilistico che preannuncia la catastrofe; ma risiede nel cuore immaginante della città rinascimentale, nelle sue strade, nel suo idioma, nelle sue cose, nella città del cuore del mondo» (cfr. L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Garzanti, Milano 1993). In sostanza, anche Hillman, come già Garin, sentiva che Firenze aveva veramente una grande “missione” per il mondo che, nel suo caso, doveva rappresentare “un rinascimento della psicologia”: per uscire dalle fantasie di catastrofe – assai attive a quel tempo e come dimenticare il caso del terrorismo italiano di quegli anni? –, occorreva ritornare a Firenze per trovare un’immaginazione capace di rinnovare profondamente quella ricerca dell’anima in cui «cuore e mondo sono congiunti a doppio filo». L’appello di Hillman, peraltro, non resterà lettera morta: basterebbe pensare alla rivista, nata in area fiorentina, che si chiama «Anima», ma anche agli studi di Luigi Zoja o, sull’impostazione lacaniana, di Massimo Recalcati. Tanto per fare qualche esempio.
E, tuttavia, cinque anni dopo il discorso sull’anima mundi di Hillman, ecco giungere a Firenze Giovanni Paolo II per raccomandare alla Chiesa il compito «di dar vita ad un nuovo umanesimo nel quale le acquisizioni valide dei tempi moderni si integrino con i valori perenni della concezione cristiana dell’uomo». E poi ancora questo quinto Convegno Ecclesiale a Firenze che porta il titolo In Gesù Cristo il nuovo umanesimo. Soltanto fortuite coincidenze?
Chi ha paura dell’umanesimo?
Eppure, in ambito ecclesiale, non mancano coloro che, di fronte all’umanesimo fiorentino, avanzano notevoli riserve, per non dire un certo ostracismo, dal momento che lo considerano unicamente pestifero veicolo di supremazia dell’uomo, anche di fronte a Dio, e in seguito portatore di tutti i veleni della secolarizzazione. E nonostante che tanti studi abbiano fatto piazza pulita di molti pregiudizi e malintesi. Ma tant’è. È una visione, a ben vedere, che parte da molto lontano se il grande Henri de Lubac aveva sentito il bisogno di impegnarsi in un poderoso e indistruttibile studio che, dedicato principalmente a Pico della Mirandola, affronta proprio L’alba incompiuta del Rinascimento, ma in un senso totalmente diverso dai censori dell’umanesimo fiorentino. Henri de Lubac, che nel suo studio cita più volte il contributo di Garin, non condivide affatto, intanto, la netta separazione tra Medioevo e Rinascimento – annosa e pretestuosa querelle storiografica di stampo ottocentesco –, ma soprattutto dimostra che Pico, nel suo celebre discorso sulla “dignità dell’uomo”, non ha affatto annegato l’originalità del cristianesimo in un sincretismo generico in cui ogni religione e filosofia religiosa potrebbe essere ridotta. Al contrario, l’esperienza dell’umanesimo fiorentino è in grado di mostrare nella rivelazione evangelica l’unica pienezza «verso la quale oscuramente tendeva tutto ciò che poteva esserci di valido nelle migliori filosofie religiose dell’umanità greco-latina e nelle più autentiche delle sue esperienze che potrebbero essere chiamate pre-mistiche» (L. Bouyer).
Certo, quella di Pico e dell’umanesimo fiorentino fu un’alba “incompiuta”, a motivo di una complessa mistura di conflitti politico-religiosi, ma è indubbio che, come molte reliquie della storia, vi erano là già anticipate non poche delle questioni che attanagliano il nostro presente. E il fatto di non saper accogliere e valorizzare l’opera di certi precursori, affermava proprio Louis Bouyer nella presentazione dello studio di de Lubac, rende monche anche quelle grandi speranze che il Vaticano II aveva acceso al suo nascere. Dopo tutto, non abbiamo saputo «riappropriarci dell’originalità autentica del cristianesimo all’interno dell’esperienza più largamente e profondamente umana», quale si era configurata all’alba del Rinascimento. Così, «la chiesa si dibatte e continuerà a dibattersi, finché in questo non si sarà seriamente impegnata, tra un conservatorismo morto e uno pseudo-progressismo, di fatto incapace anche solo di arrivare a maturità». Ed è quanto è accaduto, come sappiamo, nel post-Concilio.
D’altronde, lo studio di de Lubac non è rimasto affatto isolato. I censori dell’umanesimo fiorentino dovrebbero almeno gettare un’occhiata su un altro, prezioso e illuminante contributo storico-critico già apparso qualche anno fa. Ci riferiamo al bel libro di Marco Pellegrini, Religione e umanesimo nel primo Rinascimento (Le Lettere, Firenze 2012), in cui è documentata, e dimostrata, tutta l’ansia religiosa che fu ben presente nell’esperienza dell’umanesimo: «Nella sua presa di distanza – scrive lo studioso – da ciò che appariva morente e nell’auspicio di una renovatio intensamente pregustata, l’umanesimo mise in luce il fatto che ogni corrente culturale racchiude sempre al suo fondo, espressa o inespressa, una certa dose di speranza» (ivi, p. 21). Ecco, dunque, quella rilevanza tematica, segreta e inconfondibile, che sta al cuore dell’umanesimo fiorentino: la speranza, la speranza per l’uomo, in un contesto di forte decadimento.
Di fatto, non si capirebbe nulla, crediamo, né dell’umanesimo né della pregnanza di questi studi, da de Lubac a quest’ultimo di Marco Pellegrini, se non si afferrano appieno due dati fondamentali: da un lato, certo, la positività di quel movimento con i suoi aspetti tipici, i suoi valori, i suoi significati nel corso della civiltà moderna che vengono tutti indicati sempre nell’ambito delle arti, delle lettere, del pensiero, dell’educazione, ossia in fatti di “cultura”; ma, dall’altro, c’è un contesto politico-religioso-culturale estremamente drammatico e foriero di grandi catastrofi umane, come scriveva ancora Eugenio Garin: «tutta l’economia della città è scossa, le industrie intristiscono e sembrano dar luogo a un ritorno all’agricoltura di carattere quasi feudale, le autonomie cittadine vacillano, le “libertà” comunali scompaiono, la Chiesa sembra corrompersi sempre più intimamente» (E. Garin, La cultura del Rinascimento, Laterza, Bari 1981, p. 6). Davvero, dunque, l’umanesimo fiorentino non è stato una marcia trionfale verso le “magnifiche sorti e progressive” di quel futuro dell’Europa moderna irriso da Leopardi. Da Petrarca a Pico, da Ficino a Leon Battista Alberti e così via, è un mondo più tragico che ottimista, più spesso duro e inquieto, anziché limpido e pacificato. Ma è al contempo un mondo che non ha rinunciato alla speranza e pur in mezzo ai presagi di nuove invasioni “barbariche”.
E, intanto, tutto questo dovrebbe essere chiaro a chi guarda con scetticismo o con insofferente supponenza a qualsiasi evocazione dell’umanesimo fiorentino. Nonché al significato profondo della “missione” di Firenze. Certe cose della cultura del nostro passato superano di gran lunga, in effetti, ogni interesse puramente storico o erudito per raggiungere le nostre attuali ansie e preoccupazioni. E veniamo così all’Invito al Convegno di Firenze, pubblicato nell’anniversario dell’apertura del concilio Vaticano II (11 ottobre 2013), e voluto dal Comitato preparatorio del 5° Convegno Ecclesiale Nazionale.
Per un umanesimo cristiano
Raramente, infatti, un documento per così dire “ufficiale” come questo si presenta in maniera limpida e sicura, ben articolato nelle sue linee interne di proposta riflessiva e di contenuti, che ci riguarda tutti in maniera tutt’altro che marginale o di discussione oziosa per cristiani “intelligenti”. Il problema dell’umanesimo cristiano è, di fatto, il problema più grave e urgente dell’attuale fase della modernità o postmodernità che dir si voglia. Non è soltanto il problema che sorge, per così dire, nell’epoca della scienza, della tecnica e della comunicazione di massa. È il problema, invece, che occorre sollevare al cuore di quella silenziosa rivoluzione antropologica che da alcuni decenni domina lo scenario in cui siamo immersi e nel quale viviamo, anche come cristiani. Non è certo facile delineare in pochi tratti questo scenario, ma sta di fatto che sarebbe illusorio pensare di tenersene fuori con qualche petizione di principio o con discorsi edificanti ben congegnati dal momento che, spessissimo, non sappiamo neppure di esservi dentro.
A malincuore, in un certo senso, dobbiamo qui rifarci al solito Bauman e alla sua società “liquida” per orientarci in questa silenziosa rivoluzione antropologica, anche se quell’analisi sociologica appare ormai inflazionata dalle troppe citazioni e anche dai convegni. Quella società “liquida” che viene citata dovunque e dappertutto, come il classico prezzemolo, mentre in realtà, al di là del suo stesso scopritore e teorizzatore, è una interpretazione geniale non ancora superata né acquisita una volta per tutte. Essa ci supera e, dunque, ci condiziona che lo vogliamo o no. Nessuno può dire ancora di poterla mettere da parte con una elegante ed esaustiva trattazione o con un tratto di penna. E mettendo al centro il problema umano contemporaneo, ecco che subito si precisa il nostro “dramma” proprio sullo sfondo concreto di quella società “liquida” che forse non osiamo guardare in faccia perché temiamo, come nel mito della Gorgone, di restarne impietriti per sempre: siamo anche noi omologati dalla collettività consumistica? E perciò abbiamo paura di essere esclusi dalla società se, per una qualsiasi scelta, andiamo controcorrente? In che modo la ricerca di sicurezza, di protezione e di sostegno, prodotta dall’ansia e dalla paura, fa di noi dei consumatori anche religiosi? Anzi, degli individualisti ciechi e forsennati senza punti di riferimento e di orientamento neppure nel Vangelo in cui pensiamo di credere? Sono alcune domande che sorgono spontanee per chi, vivendo in una struttura sociale in cui lo scopo dello sviluppo economico è la promozione del consumismo individuale, non può fare a meno di interrogarsi. E soprattutto di chiedersi qual è l’influsso esercitato da questo scenario “liquido” sul vissuto reale della fede cristiana. Sono domande che non si possono evitare se si vuole prendere, dalla mano di Dio come sarebbe giusto, le riflessioni di Invito al Convegno e quindi come un salutare esame di coscienza prima di proclamare l’umanesimo cristiano come già realizzato o vissuto o semplicemente sognato. Altrimenti, si tratta di scartoffie tra le scartoffie che – ci si perdoni l’immagine – ingombrano le nostre case o la nostra indifferenza.
In verità, come afferma Bauman, la grande differenza che caratterizza oggi la società rispetto al passato è che non è più la natura a fare paura, ma la cultura imperante: «Stavolta, però, all’origine delle nostre più sinistre paure non vi sono montagne e mari, ma dei congegni creati dall’uomo, con i loro incomprensibili sottoprodotti ed effetti collaterali». L’uomo comune che tutti siamo, quindi, non ha altra scelta che esiliarsi da questa società o arrendersi alla sicurezza offerta della massificazione e dal conformismo del consumismo divenuto un fatto “interiore” e non solo “esteriore”. È in questo quadro, che potrebbe anche spaventare, che cade l’Invito al Convegno, invito serio e che richiede per essere accolto e valorizzato, prima di tutto, un esame di coscienza da coloro che hanno davvero a cuore la necessità di promuovere un umanesimo cristiano come quel compito che Dio, attraverso la Chiesa, vuole consegnare alla fede in questo terzo millennio. D’altronde, il “nuovo umanesimo”, come ha notato bene Antonio Pieretti, «si declina come una forma di discernimento a proposito della profonda crisi di identità in cui l’uomo si dibatte, come una sorta di disincanto nei confronti del mondo e, al tempo stesso, come uno sforzo rivolto a inventare una diversa condizione umana» (cfr. «Dialoghi», Rivista dell’Azione Cattolica Italiana, Anno XIV, n. 1, marzo 2014, pp. 78-83).
La posta in gioco è, dunque, alta ed è per questa ragione che il nuovo umanesimo dovrà fare i conti proprio con questo «sforzo rivolto a inventare una diversa condizione umana». Come ci dimostra, tra l’altro, un opportuno e prezioso contributo rivolto ai rapidi sviluppi delle neuroscienze e della neurofarmacologia che portano a considerare l’ipotesi di poter intervenire sui processi cerebrali potenziando le capacità cognitive umane: memoria, consapevolezza, attenzione, riconoscimento di cose e persone, ragionamento, soluzione di problemi (cfr. M. Reichlin-P. Benanti, Il doping della mente, a cura di G. Quaranta, Edizioni Messaggero, Padova 2014). Un dibattito aperto, ma comunque teso a fronteggiare sfide molto insidiose a cominciare dal fatto che, in questo sforzo di tipo scientifico, potrebbe esserci davvero il sogno di inventare una diversa condizione umana. «Ecco perché – recita l’Invito – vale la pena di accogliere il richiamo all’umano con cui veniamo proiettati verso Firenze» (p. 18).
Se muore Firenze
Di recente, Salvatore Settis ha lanciato un grido appassionato a proposito delle nostre città storiche che sono insidiate dalla resa a una falsa modernità, dallo spopolamento, e soprattutto dall’oblio di sé (cfr. S. Settis, Se Venezia muore, Einaudi, Torino 2014). Certo, questo grido del noto archeologo e storico dell’arte si rivolge particolarmente a Venezia, la città lagunare così fragile e unica per il suo rapporto con l’ambiente del mare, ma il suo sguardo è molto più ampio e potrebbe inglobare anche Firenze e il suo patrimonio artistico e culturale che rischierebbe la medesima sorte se perdesse la memoria di sé.
D’altra parte, in una recente e altrettanto appassionata storia di Firenze (cfr. P.F. Listri-M. Naldini, La costruzione della Bellezza. Duemila anni di storia di Firenze, con introduzioni storiche di Franco Cardini, Edizioni Clichy, Firenze 2013), avvertiamo l’identica preoccupazione che ha mosso il grido di allarme di Settis per Venezia: «La città sente di non poter dilazionare la propria posizione e il proprio ruolo – scrivono gli autori nella conclusione della voluminosa storia – nell’ambito italiano e mondiale, salvo ridursi a passiva vetrina museale» (p. 988). Nella svolta epocale che andiamo attraversando anche Firenze potrebbe morire e sarebbe una sciagura per tutti se non si ripensa, in modo innovativo, a quella sua “missione” di far bene fruire il passato nella riflessione dell’uomo e per la quale la città possiede ancora «una sua lucida inclinazione profetica» (ivi, p. 989).
In questa prospettiva, il Convegno Ecclesiale di Firenze è un’opportunità provvidenziale dal momento che anche la fede cristiana è chiamata a salvare l’uomo, ma anche il suo ambiente storico e spirituale. Non potrà esserci, in effetti, nessuna identità di un nuovo umanesimo cristiano se non avvertiamo la continuità storica tra passato, presente e futuro. Lo stesso Invito al Convegno lo riconosce: «L’umanesimo cristiano, sorge nel solco di una costruttiva continuità con la grande paideia greca e con l’humanitas latina, è stato connotato sin dagli inizi dalle esigenze della conversione evangelica» (p. 14). Anche se, avverte giustamente l’Invito, nel corso della storia ci sono stati numerosi e differenti umanesimi per cui «oggi non esiste più un principio sintetico che possa costituire il fulcro di un nuovo umanesimo» (p.16). E, tuttavia, «pur nella consapevolezza della natura plurale dell’odierna società, uno degli scopi del Convegno è quello di proporre alla libertà dell’uomo contemporaneo la persona di Gesù Cristo e l’esperienza cristiana quali fattori decisivi di un nuovo umanesimo» (ivi). Da qui, anche un grande appello che potrebbe partire da Firenze e dalla sua cultura spirituale: «Quella del Convegno è, così, l’occasione perché ogni Chiesa possa ripensare anche alle figure significative che in epoche diverse hanno indicato la via di un autentico umanesimo cristiano» (p. 17).
Siamo al cuore, come si vede, di un vero e proprio “progetto” che cerca a Firenze il modo di appassionarsi e di lanciarsi in avanti per un nuovo umanesimo, ma avendo al centro di tutto la persona di Gesù Cristo, Colui che si prendeva cura di un’umanità derelitta, abbandonata a se stessa, sofferente nello spirito e nel corpo: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). L’invito di Gesù è il cardine imprescindibile di tutto il progetto di Firenze perché «senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5) . E un invito ancora più serio di tutte le parole che potremmo usare per curare, custodire, toccare, fasciare, dare attenzione all’uomo nelle “periferie” della nostra stanca e complessa modernità. È un invito che ci tocca tutti personalmente, uno per uno, e non solo come realtà ecclesiale, mentre esige una forte presa di coscienza dei nostri limiti e della nostra impotenza di fronte a un “progetto” che, alla resa dei conti, potrebbe rivelarsi davvero utopico e quindi, come molti convegni, lasciare il tempo che trova. Giustamente, una recente Traccia per il cammino verso il 5° Convegno Ecclesiale Nazionale (EDB, Bologna 2015) indica nella “cura” e nella “preghiera” i presupposti improrogabili di un nuovo umanesimo cristiano che già il concilio Vaticano II aveva appassionatamente cercato e voluto e che ora la splendida Evangelii gaudium di papa Francesco ha rilanciato con vigore e incisività veramente nuovi con quei verbi delle cinque vie che proprio questa Traccia ha fatto suoi: “uscire”, “annunciare”, “abitare”, “educare”, “ trasfigurare” (cfr. pp. 54-56). Da qui anche il fatto che il progetto di nuovo umanesimo cristiano, che vorrebbe lanciare il Convegno di Firenze, sarà una grave questione di “educazione” che, come sempre, cammina in avanti.
Se vogliamo uscire, in effetti, dalle nostre ignavie, dalle nostre fiacche testimonianze, dalla nostra terribile autoreferenzialità, per educare e per trasfigurare il vissuto nostro e quello degli altri, dobbiamo accettare di essere educati da Cristo prima di tentare di educare, a nostra volta, l’uomo contemporaneo tanto stretto e quasi soffocato nella morsa di una povertà non solo materiale, ma anche e soprattutto spirituale. Dopo tutto, nessuna immagine più suggestiva ed eloquente avrebbe potuto trovare l’Invito per declinare, in maniera sintetica e profetica, tutti i fili complessi del nuovo umanesimo cristiano se non quella della Pietà di Michelangelo che la cattedrale di Firenze custodisce nel suo museo: «il volto dello scultore ormai anziano si riproduce in quello di Nicodemo: quasi una confessione di fede dell’artista che propone all’uomo la missione di “portare” Cristo, il quale sembra “nascere” dal suo petto» (p. 15).
Sì, nessun nuovo umanesimo sarà mai possibile, nella condizione sociale e culturale che viviamo, senza attingerlo dalla stessa Umanità di Cristo.
Carmelo Mezzasalma
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